Luigi Pirandello: Poesia
L u i g i P i r a n d e l l o
(1867-1936)
Tormenti
Quando in croce Gesú l’anima rese,
tutta, per un momento,
su la terra la vita si sospese,
sospese anche l’inferno ogni tormento.
Sisifo che per l’erta maledetta
avea sospinto il masso
fin su l’aspra del colle aguzza vetta,
donde tuttor riprecipita al basso,
fermo, lassú, starsi d’un tratto il vede:
stupefatto, in un oh!
fermo, di sasso, anch’egli resta, e fede
al prodigio prestar non sa, non può.
Si guarda attorno, una e due volte scuote
il macigno che sta;
vi siede e, con le pugna su le gote,
poi domanda a se stesso: – «E or che si fa?» –
Ma sotto, ecco, gli ruzzola il fatale
sasso di nuovo; ratto
balza egli in pie’, lo segue, e: – «Manco male! –
dice. – Almeno cosí, via, m’arrabatto». –
E, mentre sú per l’erta novamente
contro il masso si slancia,
tra le doglie piú là, Tantalo sente
gridare urlare: – «Ahi Dio! Ahi Dio! la pancia!» –
Aggirandosi come una bufera,
satollo, il poveretto,
in quella tregua momentanea s’era
di tutto quanto il suo crudel banchetto.
Ed or gemeva: – «Non lo farò piú!
Beato chi desia
e nulla ottiene mai! Grazia, Gesú!
Sia benedetta la condanna mia!» –
Leggendo la Storia
Sú, allegra, allegra, cara mia! Mi pare
che tu la prenda un po’ troppo sul serio.
Delitti, infamie, sí, senza criterio,
impudicizie da strasecolare;
ma gajo papa era Alessandro Borgia,
tranquillo e ingenuo nelle sue nequizie;
tranne quel della donna, senza vizi, e
sobrio, anzi frugale in mezzo all’orgia.
Ebbe per l’oro, è vero, anima lurca,
ma lo spendeva poi, tutto, tal quale.
Né per un papa infin la vedo male
che andasse a caccia vestito alla turca.
Di piú d’un figlio con Vannozza reo,
diede a Vannozza sua piú d’un marito;
ma l’ultimo, il Canal, bravo erudito:
il Polizian gli dedicò l’Orfeo,
Quanti vitelli con moderna clava
accoppa l’uomo e se li mangia? Orbene,
papa Alessandro, accoppator dabbene,
i suoi nemici, non se li mangiava.
Dunque, non mi seccar! Parole amare,
serio comento a questa fantocciata
della vita? Va’ là. Carta sprecata.
Ridi meglio, narrando, e lascia fare.
Primavera dei Terrazzi
La mia vicina, sul mattin d’aprile,
compresa ancora del tepor del letto,
esce al terrazzo, e al sol primaverile
spiega i tesori del ricolmo petto.
Ella ha piú grazia, la vicina, in quella
acconciatura che le cangia aspetto:
un camicino bianco e una gonnella
di panno lano oscura. La saluto
dal mio poggiolo dirimpetto, ed ella,
lieve inchinando il capo riccioluto,
mi risponde; poi viene al pilastrino,
su cui ride snasato un fauno arguto,
e dice: – «Come mai, caro vicino?
siete voi? sogno ancora? o com’è andata?
qual gallo v’ha cantato il mattutino?» –
Cosí, tra i fior, su la balaustrata,
dei vasi ben disposti e con amore
coltivati da lei lungo l’annata,
un grande anch’ella pare e vivo fiore;
anzi, lei sola, un fiore. A quel giardino,
giro giro, che calci di gran cuore
darei! parmi ogni vaso un cervellino
di moderno romantico poeta
che levi dal suo fango un inno fino
tra il cessin le pillaccole e la creta
per dir che piú non ama e piú non spera
alla stagion che tutto il mondo allieta.
Oh dei terrazzi magra primavera,
sciocca di nuove rime fioritura!
Mi duol che voi, maestra giardiniera,
ve ne prendiate cosí assidua cura.
Codesti fiori dall’olezzo ingrato
non vi sembrano sforzi di natura?
Due tartarughe, intanto, senza fiato,
s’inseguono sui pie’ sbiechi, in amore,
raspando il piano d’asfalto bruciato.
Cara vicina, fatemi il favore
di rivoltarle su la scaglia al sole:
non hanno alcun riguardo, alcun pudore,
brutte rocciose sceme bestiole;
sono lí lí per fare atto villano,
mentre che noi facciam solo parole:
le vedremo armeggiar nel vuoto, invano.
Luigi Pirandello: Poesia
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