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Giacomo Leopardi: Consalvo

Giacomo Leopardi

(1798-1837)

 

Consalvo

Presso alla fin di sua dimora in terra,

Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo

Del suo destino; or già non più, che a mezzo

Il quinto lustro, gli pendea sul capo

Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,

Così giacea nel funeral suo giorno

Dai più diletti amici abbandonato:

Ch’amico in terra al lungo andar nessuno

Resta a colui che della terra è schivo.

Pur gli era al fianco, da pietà condotta

A consolare il suo deserto stato,

Quella che sola e sempre eragli a mente,

Per divina beltà famosa Elvira;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo

Suo lieto, un detto d’alcun dolce asperso,

Ben mille volte ripetuto e mille

Nel costante pensier, sostegno e cibo

Esser solea dell’infelice amante:

Benchè nulla d’amor parola udita

Avess’ella da lui. Sempre in quell’alma

Era del gran desio stato più forte

Un sovrano timor. Così l’avea

Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico

Alla sua lingua. Poichè certi i segni

Sentendo di quel dì che l’uom discioglie,

Lei, già mossa a partir, presa per mano,

E quella man bianchissima stringendo,

Disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza:

Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda,

Un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo

Qual maggior grazia mai delle tue cure

Dar possa il labbro mio. Premio daratti

Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

Impallidia la bella, e il petto anelo

Udendo le si fea: che sempre stringe

All’uomo il cor dogliosamente, ancora

Ch’estranio sia, chi si diparte e dice,

Addio per sempre. E contraddir voleva,

Dissimulando l’appressar del fato,

Al moribondo. Ma il suo dir prevenne

Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,

Come sai, ripregata a me discende,

Non temuta, la morte; e lieto apparmi

Questo feral mio dì. Pesami, è vero,

Che te perdo per sempre. Oimè per sempre

Parto da te. Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,

Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria

Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

Non vorrai tu donarmi? un bacio solo

In tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga

Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi

Potrò del dono, io semispento, a cui

Straniera man le labbra oggi fra poco

Eternamente chiuderà. Ciò detto

Con un sospiro, all’adorata destra

Le fredde labbra supplicando affisse.

Stette sospesa e pensierosa in atto

La bellissima donna; e fiso il guardo,

Di mille vezzi sfavillante, in quello

Tenea dell’infelice, ove l’estrema

Lacrima rilucea. Nè dielle il core

Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio

Rinacerbir col niego; anzi la vinse

Misericordia dei ben noti ardori.

E quel volto celeste, e quella bocca,

Già tanto desiata, e per molt’anni

Argomento di sogno e di sospiro,

Dolcemente appressando al volto afflitto

E scolorato dal mortale affanno,

Più baci e più, tutta benigna e in vista

D’alta pietà, su le convulse labbra

Del trepido, rapito amante impresse.

Che divenisti allor? quali appariro

Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,

Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,

Ch’ancor tenea, della diletta Elvira

Postasi al cor, che gli ultimi battea

Palpiti della morte e dell’amore,

Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono

In su la terra ancor; ben quelle labbra

Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!

Ahi vision d’estinto, o sogno, o cosa

Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,

Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi

Non ti fu l’amor mio per alcun tempo;

Non a te, non altrui; che non si cela

Vero amore alla terra. Assai palese

Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,

Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre

Muto sarebbe l’infinito affetto

Che governa il cor mio, se non l’avesse

Fatto ardito il morir. Morrò contento

Del mio destino omai, nè più mi dolgo

Ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno,

Poscia che quella bocca alla mia bocca

Premer fu dato. Anzi felice estimo

La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:

Amore e morte. All’una il ciel mi guida

In sul fior dell’età; nell’altro, assai

Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,

Solo una volta il lungo amor quieto

E pago avessi tu, fora la terra

Fatta quindi per sempre un paradiso

Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,

L’abborrita vecchiezza, avrei sofferto

Con riposato cor: che a sostentarla

Bastato sempre il rimembrar sarebbe

D’un solo istante, e il dir: felice io fui

Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto

Esser beato non consente il cielo

A natura terrena. Amar tant’oltre

Non è dato con gioia. E ben per patto

In poter del carnefice ai flagelli,

Alle ruote, alle faci ito volando

Sarei dalle tue braccia; e ben disceso

Nel paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra

Gl’immortali beato, a cui tu schiuda

Il sorriso d’amor! felice appresso

Chi per te sparga con la vita il sangue!

Lice, lice al mortal, non è già sogno

Come stimai gran tempo, ahi lice in terra

Provar felicità. Ciò seppi il giorno

Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte

Questo m’accadde. E non però quel giorno

Con certo cor giammai, fra tante ambasce,

Quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,

Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno

Non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce

Un altrettale amor. Quanto, deh quanto

Dal misero Consalvo in sì gran tempo

Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!

Come al nome d’Elvira, in cor gelando.

Impallidir; come tremar son uso

All’amaro calcar della tua soglia,

A quella voce angelica, all’aspetto

Di quella fronte, io ch’al morir non tremo!

Ma la lena e la vita or vengon meno

Agli accenti d’amor. Passato è il tempo,

Nè questo dì rimemorar m’è dato.

Elvira, addio. Con la vital favilla

La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave

Non ti fu quest’affetto, al mio feretro

Dimani all’annottar manda un sospiro.

Tacque: nè molto andò, che a lui col suono

Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo

Suo dì felice gli fuggia dal guardo.

 

 

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